Elena Ferrante è una scrittrice italiana. Il settimanale Time nel 2016 l’ha inserita tra le 100 persone più influenti al mondo.
- Nascita: 1943, Napoli
- Film: L’amore molesto, I giorni dell’abbandono
- Premi: Independent Publisher Book Award for Literary Fiction
- Candidature: Man Booker International Prize, Premio Strega
Frasi aforismi citazioni di Elena Ferrante
Esistere è questo, pensai, un sussulto di gioia, una fitta di dolore, un piacere intenso, vene che pulsano sotto la pelle, non c’è nient’altro di vero da raccontare.
Dovevo strapparmi il dolore della memoria, dovevo scartavetrare i graffi che mi guastavano il cervello.
Quanto pesa un corpo che è stato attraversato dalla morte. La vita è leggera, non bisogna permettere a nessuno di renderla greve.
Il futuro, da un certo punto in poi, è solo necessità di vivere al passato.
Persa un’occasione non se ne danno altre. Se non c’ è due senza tre, c’è uno senza due.
Che complicato schiumoso miscuglio è una coppia. Sebbene la relazione si sfrangi e poi cessi, essa continua ad agire per vie segrete, non muore, non vuole morire.
Mi ero innamorata di Mario, da ragazza, ma avrei potuto innamorarmi di chiunque altro, un corpo a cui finiamo per attribuire chissà quali significati. Un lungo brano di vita insieme, pensi che sia l’unico uomo con cui puoi stare bene.
Le parole vanno raramente al posto giusto, e solo per un tempo brevissimo. Per il resto servono a parlare a vanvera, come adesso. O a fingere che sia tutto sotto controllo.
Subito dopo il suo funerale mi sentii come quando all’improvviso si mette a piovere forte, ti guardi intorno e non trovi un posto dove ripararti.
Non è nessuno. E per chi non è nessuno, diventare qualcuno è più importante di qualsiasi altra cosa.
Mi obblighi a darti una spiegazione lineare. E le spiegazioni lineari sono quasi sempre bugie.
L’unico problema è sempre stato l’agitazione della testa. Non la posso fermare. Devo sempre fare ,rifare, coprire, scoprire, rinforzare… e poi, all’improvviso, disfare, spaccare. La tela che tessi di giorno, si disfa di notte. La testa trova il modo.
Era lui? Era lui che avevo sempre amato? O uno sconosciuto che stavo costringendo ad assumere una fisionomia chiara e definitiva?
Tutto quel suo bisogno di donne forse era il segno di una eterosessualità labile che per resistere necessitava di continue conferme.
I libri si scrivono per farsi sentire,non per stare zitti. Non si scrive tanto per scrivere: si scrive per fare male a chi vuol far male. Un male di parola contro un male di pugni e calci e strumenti di morte. Non molto,ma abbastanza.
Uno ti può fare del male solo se vuoi bene a qualcuno. Ma io non voglio più bene a nessuno.
“Fingere? Tu che hai sempre tenuto tutto sotto controllo, fingevi?”.
“Perché no? È fisiologico fingere un poco. Noi che volevamo fare la rivoluzione siamo stati quelli che anche in mezzo al caos si inventavano sempre un ordine e facevano finta di sapere esattamente come stavano andando le cose”.
Una mattina mi disse in dialetto: da piccola lo sapevo che si moriva, l’ho sempre saputo, ma non ho pensato mai che sarebbe toccato a me, e neanche adesso riesco a crederci.
Questi tradimenti, mormorò, se uno non li viene a sapere al momento giusto non servono, quando sei innamorato perdoni tutto. Perché i tradimenti abbiano il loro peso effettivo deve prima maturare un poco di disamore.
«Non è pazzia, Dede, è dolore».
«Non ha mai pianto una lacrima».
«Le lacrime non sono il dolore».
«Sì, ma senza le lacrime chi ti assicura che il dolore c’è?».
«C’è e spesso è un dolore ancora più grande».
Lei possedeva intelligenza e non la metteva a frutto, ma anzi la sperperava come una gran signora per la quale tutte le ricchezze del mondo sono solo un segno di volgarità. Questo era il dato di fatto che doveva aver ammaliato Nino: la gratuità dell’intelligenza di Lila
Solo nei romanzi brutti la gente pensa sempre la cosa giusta, dice sempre la cosa giusta, ogni effetto ha la sua causa, ci sono quelli simpatici e quelli antipatici, quelli buoni e quelli cattivi, tutto alla fine ti consola.
Per scrivere bisogna desiderare che qualcosa ti sopravviva. Io invece non ho nemmeno la voglia di vivere, non ce l’ho mai avuta forte come ce l’hai tu. Se potessi cancellarmi adesso, proprio mentre ci parliamo, sarei più che contenta. Figuriamoci se mi metto a scrivere.
Per quanto ormai scrivessi e ragionassi in lungo e in largo di autonomia femminile, non sapevo fare a meno del suo corpo, della sua voce, della sua intelligenza. Fu terribile confessarmelo, ma seguitavo a volerlo, lo amavo più delle mie stesse figlie… Ero incapace di essere ‘io’ il modello di me stessa. Senza di lui non avevo più un nucleo a partire dal quale espandermi fuori dal rione e per il mondo, ero un mucchio di detriti.
Mi sembrarono una coppia molto innamorata, molto felice ,con un loro segreto così segreto, che era ignoto persino a loro stessi.
“Prometti che continuerai a telefonarmi tutti i giorni”.
“No, non ti telefonerò più”.
“Se non lo fai io divento pazzo”.
“Io, divento pazza,se continuo a pensare a te!”
M’ero costruita fin da piccola un perfetto congegno autorepressivo. Non uno dei miei desideri veri era mai prevalso: avevo sempre trovato il modo per incanalare ogni smania. Ora basta, mi dicevo, che salti tutto in aria! E io per prima!
Era addestrato fin dall’infanzia a individuare le regole nel caos. Ma di fronte all’abbandono siamo tutti uguali: nemmeno una testa molto ordinata può reggere alla scoperta di non essere amata.
Non mi abituerò mai a questo corpo: è una continua sorpresa, ha un odore eccitante, una forza del tutto estranea a ciò che è mio marito, alle consuetudini che c’erano tra noi.
La maturità consisteva nell’accettare la piega che aveva preso l’esistenza senza agitarsi troppo, tracciare un solco tra prassi quotidiana e acquisizioni teoriche, imparare a vedersi, a conoscersi in attesa di grandi cambiamenti.
Nelle favole si fa come si vuole. Nella realtà si fa come si può.
Diventare. Era un verbo che mi aveva sempre ossessionata, ma me ne accorsi per la prima volta solo in quella circostanza. Io volevo diventare, anche se non avevo mai saputo cosa. Ed ero diventata, questo era certo, ma senza un oggetto, senza una vera passione, senza un’ambizione determinata. Ero voluta diventare qualcosa – ecco il punto – solo perché temevo che Lila diventasse chissà chi e io restassi indietro. Il mio diventare era diventare dentro la sua scia. Dovevo ricominciare a diventare, ma per me, da adulta, fuori di lei.
Un maschio, a parte i momenti pazzi in cui lo ami e ti entra dentro, resta sempre fuori. Perciò, dopo, quando non lo ami più, ti dà fastidio anche solo pensare che una volta l’hai voluto.
Disse che non essere credenti non significava non credere in niente, lui aveva sue convinzioni e una fede assoluta nel suo amore per me.
Questo distratto inseminare dei maschi, storditi dal piacere. Ci fecondano sopraffatti dal loro orgasmo. Si affacciano dentro di noi e si ritraggono lasciandoci, celato nella carne, il loro fantasma come un oggetto smarrito.
Diventammo l’una per l’altra frammenti di voce, senza mai nessuna verifica dello sguardo.
Si appassiona soltanto a ciò che il mondo non può dare.
Aveva imparato che cercare le ragioni le faceva male e aspettò che l’infelicità diventasse prima un generico malumore, poi malinconia e infine il normale affanno di ogni giorno.
Il matrimonio mi sembrava ormai un istituto che ,contrariamente a quanto si pensava, spogliava il coito di ogni umanità.
Buoni o cattivi,gli uomini credono che, a ogni loro impresa, devi metterli su un altare come San Giorgio che ammazza il drago.
Anche Alfonso nascondeva in petto don Achille, suo padre, malgrado l’aria delicata? Possibile che i genitori non muoiano mai, che ogni figlio se li covi dentro inevitabilmente? Dunque da me davvero sarebbe sbucata mia madre, la sua andatura zoppa, come un destino?
Cos’è successo quando ti ho fatta? Un incidente, un singhiozzo, una convulsione, è mancata la luce, s’è fulminata una lampadina, è caduta la bacinella con l’acqua dal comò? Certo qualcosa ci dev’essere stato, se sei nata così insopportabile, così diversa dalle altre.
Capii all’improvviso perché non avevo avuto Nino, perché lo aveva avuto Lila. Non ero capace di affidarmi a sentimenti veri. Non sapevo farmi trascinare oltre i limiti. Non possedevo quella potenza emotiva che aveva spinto Lila a fare di tutto per godersi quella giornata e quella nottata. Restavo indietro, in attesa. Lei invece si prendeva le cose, le voleva davvero, se ne appassionava, giocava al tutto o niente, e non temeva il disprezzo, lo scherno, gli sputi, le mazzate.
Fu un attimo, poi mi lasciò con un movimento leggero, una carezza al palmo con le dita, e andò via verso il Rettifilo. Restai a guardarlo mentre si allontanava senza mai girarsi, con la sua andatura da condottiero svagato che non temeva niente del mondo perché il mondo esisteva solo per piegarsi a lui.
Dopo molto tempo fui veramente contenta di me. Poco prima dei ventitré anni ero nientemeno dottoressa, avevo una laurea in lettere, centodieci e lode. Mio padre non era andato oltre la quinta elementare, mia madre s’era fermata alla seconda, nessuno dei miei antenati, per quel che potevo sapere, aveva mai saputo leggere e scrivere correntemente. Che prodigioso sforzo avevo fatto.
Il mondo se n’era andato in disordine e io non riuscivo a trovare dentro di me l’autorità per richiamarlo indietro e riordinarlo.
Desidero di essere punita per la mia inadeguatezza, desidero che mi accada il peggio, qualcosa di così devastante da impedirmi di far fronte a stanotte, a domani, alle ore e ai giorni che verranno, ribadendomi con prove sempre più schiaccianti la mia costituzione inadatta.
Penso che la bellezza sia un inganno. Come il mare in un giorno sereno. O come un tramonto. O come il cielo di notte. E’ cipria passata sopra l’orrore: se la si toglie, restiamo soli col nostro spavento.
Salivamo lentamente verso il più grande dei nostri terrori di allora, andavamo a esporci alla paura e interrogarla. Alla quarta rampa Lila si comportò in modo inatteso. Si fermò ad aspettarmi e quando la raggiunsi mi diede la mano. Questo gesto cambiò tutto tra noi per sempre.
E’ notte, non riesco più ad addormentarmi, ho in testa tutte le parole che lui ha detto, tutte quelle che non vedo l’ora di dirgli io.
Capii che ero arrivata fin là piena di superbia e mi resi conto che – in buona fede certo, con affetto – avevo fatto tutto quel viaggio soprattutto per mostrarle ciò che lei aveva perso e ciò che io avevo vinto. Ma lei se ne era accorta fin dal momento in cui le ero comparsa davanti e ora, rischiando attriti coi compagni di lavoro e multe, stava reagendo spiegandomi di fatto che non avevo vinto niente, che al mondo non c’era alcunché da vincere, che la sua vita era piena di avventure diverse e scriteriate proprio quanto la mia, e che il tempo semplicemente scivolava via senza alcun senso, ed era bello solo vedersi ogni tanto per sentire il suono folle del cervello dell’una echeggiare dentro il suono folle del cervello dell’altra.
Forse, quando uno uno si innamora di una persona non le fa prima l’esame per vedere se sa scrivere una lettera d’amore.
“Il problema della gioventù è la mancanza di occhi per vedersi e di sentimenti per sentirsi con oggettività”.
“Lo specchio c’è. E quello è oggettivo”.
“Lo specchio? Lo specchio è l’ultima cosa di cui ti puoi fidare”.
Si sta facendo del male dentro, perchè le frasi, gridate così nella gola, in petto, ma senza esplodere nell’aria, sono come pezzi di ferro tagliente che gli stanno ferendo i polmoni e la faringe.
Dentro ciò che è piccolo, c’è qualcosa di ancora più piccolo che vuole schizzare fuori.
E fuori di ciò che è grande,c’è qualcosa di ancora più grande che lo vuole tenere prigioniero.
Fanno così perchè ci sono nati. Ma non tengono nella testa nemmeno un pensiero che è loro, che hanno faticato a pensare. Sanno tutto e non sanno niente.
Che significa per te una città senza amore?”
“Un popolo privato della felicità”.
Lei era così: rompeva equilibri solo per vedere in quale altro modo poteva ricomporli.
Non ci sono gesti, parole, sospiri che non contengano la somma di tutti i crimini che hanno commesso e commettono gli esseri umani.
“Sai cos’è la plebe?”. “Sì, maestra”. Cos’era la plebe lo seppi in quel momento, e molto più chiaramente di quando anni prima la Oliviero me l’aveva chiesto. La plebe eravamo noi. La plebe era quel contendersi il cibo insieme al vino, quel litigare per chi veniva servito per primo e meglio, quel pavimento lurido su cui passavano e ripassavano i camerieri, quei brindisi sempre più volgari.
Se la vedevo per strada, per l’angoscia cambiavo strada. Ma poi non resistevo e le andavo incontro come a una fatalità.
Forse devo cancellare Lila da me come un disegno sulla lavagna, pensai, e fu, credo, la prima volta. Mi sentivo fragile, esposta a tutto, non potevo passare il mio tempo a inseguirla o a scoprire che lei mi inseguiva, e nell’un caso e nell’altro sentirmi da meno.
Quando si è al mondo da poco è difficile capire quali sono i disastri all’origine del nostro sentimento del disastro, forse non se ne sente nemmeno la necessità. I grandi, in attesa di domani, si muovono in un presente dietro al quale c’è ieri o l’altro ieri o al massimo la settimana scorsa: al resto non vogliono pensare. I piccoli non sanno il significato di ieri, dell’altro ieri, e nemmeno di domani, tutto è questo, ora
Non ho nostalgia della nostra infanzia, è piena di violenza. Ci succedeva di tutto, in casa e fuori, ogni giorno, ma non ricordo di aver mai pensato che la vita che c’era capitata fosse particolarmente brutta. La vita era così e basta, crescevamo con l’obbligo di renderla difficile agli altri prima che gli altri la rendessero difficile a noi.
La bellezza che Cerullo aveva nella testa fin da piccola non ha trovato sbocco, Greco, e le è finita tutta in faccia, nel petto, nelle cosce e nel culo, posti dove passa presto ed è come se non ce l’avessi mai avuta.